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Il turpiloquio e le “distanze sociali”


Fino a tempi relativamente recenti le male parole erano confinate nelle fabbriche e nei magazzini. Non avevano posto negli uffici. Ma del resto i manager portavano la cravatta e, nelle aziende più conservatrici, aspettavano fine giornata e l’uscita degli impiegati “comuni” per levarsi la giacca. A volte si lasciavano un po’ andare con i quadri… ma si bestemmiava solo davanti agli intimi.

Il meccanismo delle “distanze sociali” è molto cambiato negli anni, ma l’autorità è pur sempre l’autorità e il turpiloquio parrebbe essere penetrato negli uffici attraverso un processo top down, con i grandi capi primi a mettersi a fare gli sboccati, forse in parte per far vedere che “possano”, ma anche perché è di moda. Una moda sostanzialmente anglosassone, che nasce per paradosso più vicino all’alta finanza di New York e di Londra che ai torni e le presse dell’industria pesante, con praticanti famosamente dediti alle parolacce come Jamie Dimon, il Presidente e CEO di JPMorgan Chase, la maggiore banca americana.

L’impatto della mala parola dovrebbe nascere dalla sua spontaneità, dall’impossibilità di controllarsi appieno in presenza di un’emozione fortemente sentita. Così – almeno negli ambienti dove non è comune sentirla – esprimerebbe, oltre alla forza, anche passione e sincerità. Questa è la teoria, ed è una teoria che ormai si è trasmessa non solo al marketing americano – con, per esempio, il Dollar Shave Club, una nota azienda di materiali per la rasatura che usa lo slogan pubblicitario: “Le nostre lamette sono f**king great!” – ma anche al marketing politico italiano, con i vari “Vaffa Day”.

Ma è vero che il turpiloquio è sinonimo di passione e onestà, non solo di maleducazione? Forse sì. Secondo gli autori una ricerca internazionale – “Frankly, we do give a damn: The relationship between profanity and honesty – di Gilad Feldman della Maastricht University, Huiwen Lian della Hong Kong University of Science and Technology, Michal Kosinski della Stanford University e David Stillwell della University of Cambridge: “Abbiamo trovato un rapporto positivo e consistente tra profanità e onestà. La profanità è associata al minor ricorso alle bugie e all’inganno a livello individuale e con una maggiore integrità a livello della società”.

Altre ricerche ancora smentiscono la comune percezione che gli sboccati ricorrano alle parolacce solo perché non sanno esprimersi efficacemente con un linguaggio corretto. Gli studi rivelano una precisa correlazione tra la ricchezza del corredo di male parole di chi si sfoga sputando parolacce e l’ampiezza generale del suo vocabolario.

Ma in che c***o di mondo siamo finiti se non si può più distinguere le persone perbene dai pezzenti per come parlano?

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