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Abashawl: il grande orfanotrofio

Il mio amico Timmy mi accompagna alla scoperta di Abashawl, un popolarissimo angolo periferico di Asmara, che definisce come il più grande orfanotrofio del mondo senza porte né cancelli, dove ogni bimbo ha tante madri, tanti fratelli e sorelle e dove i più grandi si prendono cura dei più piccoli.

Faccio davvero fatica a credere che la definizione del mio amico possa rispondere ad una realtà, quindi, insieme a lui arriviamo alla sommità di u colle dove sorge una sorta di ristorante a forma circolar

Da questo posto si ha una visione d’insieme di Asmara, capitale dell’Eritrea, e proprio a ridosso, occupando lo spazio scosceso che degrada verso il centro della città, sorge il quartiere di Abaschwl.

Uno spazio di terra rossastra ed ecco le prime baracche.  Abitazioni in terra e coperture in lamiera.  Strade piccole, sconnesse, strette.

Timmy, camminando per le vie davanti a me, in due non ci stiamo, mi racconta di questa parte della città, della grande povertà.  Il suo racconto è leggero e dignitoso mentre gli abitanti continuano ad espletare le loro mansioni abituali.

Una parrucchiera a cielo aperto, una donna tesse tappeti, un venditore ambulante ma, e soprattutto, tantissimi bambini che sempre più numerosi ci accompagnano tra le piccolissime viuzze interrotte da qualche spiazzo. 

Nelle piccole case, spesso di una sola stanza, sono in tanti a trovare ricovero mentre possiamo ammirare alcuni strumenti, elettrodomestici per modo dire, che vengono usati per fare il “injera”, pane tipico dell’Eritrea, di forma rotonda,  dalla consistenza spugnosa e dal sapore un po’ acidulo.

Ancora terra, ancora baracche ed ancora bambini di ogni età. 

Volgo lo sguardo verso Timmy, non servono parole, basta uno sguardo per ricordare la sua definizione di Abashwl.

Mi fermo volentieri in mezzo a loro. Attratti dalla mia macchina fotografica posano con naturalezza e senza timori. 

Famelico di immagini sono mai sazio.  Vorrei immortalare ogni cosa di questo posto che dovrebbe essere condiviso con quanti, nel medesimo istante, vivono nell’opulenza, sfarzo, fastosità e superfluo mentre qui impera indigenza, bisogno, miseria e ristrettezza.

Sono immerso in un ambiente che mi appare irreale pur nella sua crudele realtà ed  è difficile trovare parole adeguate per poterla compiutamente descrivere.

Sono afflitto e mestamente volgo per l’ennesima volto lo sguardo verso il mio amico Timmy.  Capisce e mi porta fuori da Abashawl.

Palafitte sul mare: I Trabocchi”

Gabriele D’Annunzio, che a San Vito Chietino ebbe il suo eremo, cantò la Costa dei Trabocchi nel “Trionfo della Morte”: 

“Proteso dagli scogli, simile a un mostro in agguato, con i suoi cento arti il trabocco aveva un aspetto formidabile”.

“Dall’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli si protendeva un trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simili ad un ragno colossale…”.

E ancora:

“La grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati di assi e di gomene che biancheggiava singolarmente simile allo scheletro colossale di un anfibio antidiluviano”.

“Il trabocco, quella grande ossatura biancastra protesta su la scogliera..forma irta e insidiosa in agguato perpetuo, pareva sovente contrastare la benignità della solitudine. Ai meriggi torridi e ai tramonti prendeva talora aspetti formidabili”,

“…fin negli scogli più lontani erano conficcati pali a sostegno dei cordami di rinforzo; innumerevoli assicelle erano inchiodate su per i tronchi a confortarne i punti deboli. La lunga lotta contro la furia del flutto pareva scritta su la gran carcassa per mezzo di quei nodi, di quei chiodi, di quegli ordigni. La macchina pareva di vivere di una vita propria, aveva un’aria e un’effige di corpo animato”.

Non esiste migliore modo per descrivere queste macchine da pesca facendone sentire la poesia e l’unicità.  I trabocchi che caratterizzano la costa abruzzese, ma anche molisana e garganica, pare siano stati opera dei cinesi nel IV-V secolo, e si ritiene che tale modello sia stato utilizzato dai bizantini fin dal 587. Uno degli episodi più clamorosi fu l’assedio di Caffa, avamposto genovese nel Mar Nero, avvenuto nel 1345.

Altra ipotesi di studiosi, circa le sue origini, è quella che il nome trabucco deriva dal latino “trabs”, ovvero trave. Per altri, deriva dall’antico francese “Trabone”: un’antica macchina murale per gittare. C’è, inoltre, chi associa quest’invenzione ai Fenici.

Cosa sono, o per meglio dire, sono stati i trabocchi fine ad un passato abbastanza recente?

Non altro che una imponente costruzione realizzata in legno strutturale che consta di una piattaforma protesa sul mare ancorata alla roccia da grossi tronchi di pino d’Aleppo, dalla quale si allungano, sospesi a qualche metro dall’acqua, due (o più) lunghi bracci, detti antenne, che sostengono un’enorme rete a maglie strette detta trabocchetto.

In altri termini, delle macchine per la pesca, trasformati negli ultimi anni in suggestivi ristoranti di pesce.

I luoghi del “cuore”: Punta Secca, piccolo borgo marinaro in provincia di Ragusa

Non si può essere infelice quando si ha questo: l’odore del mare, la sabbia sotto le dita, l’aria, il vento.

(Irène Némirovsky)

Il segreto che permette all’uomo di non invecchiare è quello di rimanere semplice e avere la capacità di scoprire un mondo anche in un granello di sabbia. (Romano Battaglia)

I pensieri messi su carta, in fondo, non sono altro che la traccia sulla sabbia di un viandante: è vero, si vede la via che egli ha seguito, ma per sapere che cosa abbia visto sul suo cammino bisogna adoperare i propri occhi.

(Arthur Schopenhauer)

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